Lettera di Alda Merini ad Adriano Celentano
Ho ascoltato l’ultimo disco di Celentano fino all’esaurimento nervoso. L’ho fatto anche per esorcizzare le mie paure. È come se avessi messo nel mio cervello la spina di una corrente che si era raffreddata. Per annientare lo sconcio dell’indifferenza. È la società dell’oggi e forse del domani. Ma ciò che mi sorprende è la grande forza di Celentano di ambientare il dolore nello scandalo della SUA indifferenza che diventa musica. È come se Adriano ballasse in un metro quadrato di spazio sulle piastrelle della sua paura. In questo caso è così duttile da poter essere rielaborato non solo dalla memoria ma dal dolore della memoria.
Ogni corpo è una prigione. Ogni rinnovamento dell’ “altro” è uno schiaffo morale sul volto pulito dell’infanzia, sul volto del bambino poeta.
Quando mi hanno “asportato” il solaio mandandomi addosso un polverone di macerie ho sentito che questo dolore non solo mi faceva ammalare ma mi levava lo spazio vitale dell’ispirazione. La memoria è il portento dell’uomo. L’uomo suda fatica per mantenere intatte le sue memorie. Le ama, le protegge come sue creature vive, e non vuole lasciarle morire strangolate nelle mani aride di un padrone di casa. O di un mistificatore del diritto sociale.
Adriano è come una Venere maschio che salta fuori dai cocci di una terra che sta andando a rotoli, di una terra che si vuole vendicare. Canta e invoca la resurrezione dei corpi e della mente. Alle spalle il Coro, il Coro greco delle lamentatrici che canta questo eterno funerale delle idee e della libertà dell’uomo.
L’uomo in principio ebbe paura del fuoco, ebbe paura della materia, persino della luce. Poi cercò di rendersi amici questi elementi che potevano farlo morire. Ecco: diciamo che una palafitta può salvarci dalle belve in agguato. E il mondo della canzone di Celentano è pieno di queste belve che lui guarda sorridendo e che ammansisce. È un San Francesco che avvicina il lupo e fa ridere anche il peggiore dei mostri. Questo è il grande potere dell’uomo. Anch’io in manicomio nei momenti di disperazione cominciavo a ridere e facevo ridere coloro che avevano paura. Mi sono salvata per questo. Comunque la religiosità di Adriano è una forma panteistica della primigenia lussuria della passionalità scabrosa dell’artista contro cui si scatenano i mediocri, i distruttori della felicità.
Adriano rivaluta il bisogno dell’uomo di non avere altri padroni che il Creatore del mondo. Se noi veramente continuiamo a amare coloro che un giorno ci uccideranno è perché il culto della morte in noi si fa persona. Diventa l’ALTER EGO che baciamo perché la morte ha il riso dell’ascesi.
Questo pamphlet non è altro che la rivalsa su tutti gli spregevoli conti in tasca dell’uomo che vuole arricchire e distruggere la cultura.
Così morirà il mondo se non ci saranno i Poeti e questi giullari del canto che pregano Dio piegandosi in due per il dolore.
Il ritmo di Adriano è il ritmo del sangue. Come dice la Tamaro: Adriano va dove lo porta il cuore e dove andiamo noi tutti per morire sereni. Forse in una fossa comune dove continueremo a cantare il nome della Pietà Divina.
ALDA MERINI