Prefazione di Roberto Benigni
Canzoni come Azzurro andrebbero proibite per legge.
Bisognerebbe ascoltarle con un’armatura per proteggersi dalle radiazioni. Se uno le ascolta così indifeso, può rimanerne turbato per sempre. È come incontrare di notte un cavallo bianco al galoppo senza una goccia di sudore. Qualcosa che ha a che vedere col mistero, con le cose memorabili.
Incontrai Azzurro una sera d’estate.
Sentii trombe e tromboni che simulavano un’allegria che non c’era e poi una tempesta di archi in frenata serviva una voce strepitosamente bella. Come porgere il tramonto in una tazza.
Quella voce era di Adriano Celentano.
Adriano Celentano. Bastava il nome per fare alzare tutti dai tavoli da gioco della Casa del Popolo del mio paese e con le carte ancora in mano mettersi in piedi davanti alla televisione in un silenzio zuppo di gioia.
Non accadeva nemmeno per Berlinguer.
Adriano Celentano. Religioso e sensuale. Una via dimezzo tra Papa Giovanni e Brigitte Bardot. Come gli si voleva bene. Quella sera cantò una canzone che parlava di un pomeriggio d’estate, di preti, di un leone, del desiderio. Era bella come un chilo di albicocche. La bellezza è la moneta di Dio, non bisogna accumularla, bisogna farla circolare, e quella sera ognuno di noi tornò al tavolo da gioco più ricco.
Avevamo vinto tutti. Nelle Sacre Scritture si dice che chi sparge letizia sarà salvato.
L’Avvocato di Asti e l’imputato di via Gluck, con Azzurro, si sono guadagnati una cavalcata su quel cavallo bianco che non suda mai.