Prefazione di Furio Colombo
Adriano Celentano regna benevolo su un mondo di donne giovani che popolano il suo orizzonte. Come nelle fiabe, non sappiamo dove sia quel mondo e quanto si estende il territorio che pure deve essere vasto, a giudicare dal compito che il re si assume.
C’è questo di caratteristico nel suo regnare. Il re ascolta. Lo so, ho rubato una frase di Calvino e il titolo di un’opera di Luciano Berio, credenziali arrischiate per entrare nel territorio che sto esplorando, in parte ambientato in uno spazio che conosco, in parte arrampicato nella scoperta.
Scopro che qui vige una legge scrupolosamente osservata: il re ascolta. Ogni battuta (line, verso) del conversare sonoro di Adriano è domanda o risposta o provocazione o rimando o interruzione o scatto di reazione o un modo gattesco di assecondare, affinché l’altra parte si faccia avanti. Si fa avanti. E infatti ogni tratto di questo viaggio – detto anche “canzone” – è un domandare, ascoltare, rispondere. Nessuno comincia, nessuno finisce, qualcosa era già accaduto e qualcosa deve ancora accadere.
Quel tanto di magico che un re benevolo riesce a creare intorno a sé, nel suo territorio, induce a constatare che la narrazione è importante (nel senso che importa a chi parla, a chi ascolta e a chi compie il viaggio di attraversamento). Tanto che non sta per finire. Qui manca del tutto il finale padronale: “e vissero per sempre felici e contenti”. A volte sono felici, le voci che parlano e ascoltano, a volte non sono contente. Il fatto è che la conversazione non si interrompe, anzi senti che il legame, persino se può sembrare una litigata, è saldo e tiene.
Ha, come dire, una forza umana. E’ ciò che di solito manca alla fiabe e che rende questa fiaba un po’ diversa e alquanto speciale.
Per prima cosa pensate che, se c’è un re, ci debbano essere anche i sudditi. Qui il re conduce,come in un ballo in cui non c’è niente di automatico e rituale, e in cui ogni spostamento e ogni nuovo passo è invenzione.
Conduce, ma senza arbitrio perché ascolta. E chissà dove porta la storia che c’è dentro la conversazione. Questo è un re che serve e asseconda i cittadini (le cittadine) del suo regno.
Certo. I re dicono sempre di se stessi che “sono al servizio della nazione…”.
In questo caso c’è qualcosa di vero perché la regola vuole che i cittadini (le cittadine) esistano in quanto interlocutori del re. E il re infatti si esprime per mezze frasi che dicono di un gesto appena accennato, di uno scatto di umore, di un tratto della persona che ascolta, qualcosa che vuole o che ha fatto, il colore o un segnale fisico, anche minimo, che identifica e aggancia l’altra persona con un pezzo di frase.
La regola di questo spazio incantato vuole che non si senta, fisicamente. L’altra voce. Ma non assistiamo mai a un arbitrio del sovrano. Senti che il suo potere consiste nell’evocare, non nel cambiare la vita. Ha, certo, la possibilità di far diventare intensamente fisico e dunque vero,accaduto, qualcosa di essenziale come il contatto anche minimo fra due corpi, e persino il puro e oggettivo scatto di attrazione di una esistenza fisica verso un’altra.
Quella che si svolge nella foresta di questo regno e che attribuisce cittadinanza (identità) ai cittadini che la popolano, è una serie molto intensa di vibrazioni che sono di tante nature,mentale, di sensi, di evocazione, di attesa. E anche di narrazione di ciò che accade, ricostruito per minimi spunti. Perché il curioso compito che questo re guerriero si assegna – e scrupolosamente non viola mai – è una sua forma di rispetto che gli impedisce di invadere territori, e lo mette, se necessario, nella condizione di chiedere, di accettare, eventualmente di esecrare, se il suo desiderio non si verifica. Invadere mai. E’ un re che governa, che occupa, se gli viene offerto lo spazio, e tende volentieri ad allargare il suo dominio. Mai con la guerra.
Rifiuta il sofisma e l’inganno, se una storia è finita è finita.
Nella foresta sonora di Celentano le donne che il re ascolta, con cui conversa, con cui cerca contatto con inesausta volontà di potere, non sono né un harem né una mite e innamorata schiera di sudditanza. Questo è un re alla pari che vuole, anzi pretende, una sua curiosa parità di diritti. Nella foresta magica quello che conta è vivere nell’attenzione che non perde dettagli, aggancia domande e accetta di non avere risposte, perché gli scatti di umore, nel bene e nel male, riguardano sopratutto lui. Ma il re è simbolo, come dicono le costituzioni.
Qui parla (canta) per la metà di un popolo. Ma l’altra metà del suo popolo lo riconosce perché si sente rappresentato.
E’ il popolo degli uomini che parlano alle donne, e si riconoscono nel modo spavaldo e cauto, aggressivo e in guardia, forte e timoroso, testardo nel provare ma non nel vincere. E’ il popolo degli uomini che parla con le donne, non delle donne. E con le donne accetta di non sapere ciò che non sa, e di fingere ciò che non è.
Questo re traccia confini, vuole dominare ma non è un invasore. Rispetta i confini degli altri quando li vede.
Non corteggia il suo popolo mostrando che gli va bene tutto. Per esempio: non è nostalgico,non è malinconico, non finge disperazione, non ci sono crepuscoli e rimpianti nello spazio che lui controlla. E quello spazio non è mai la hall di un albergo con musica di conforto: Adriano è uno Zorro che traccia segni netti e senza equivoci. O così o così. Ma prima ascolta, anche se tu non senti la voce a cui lui si dedica.
E questo spiega le sue lunghe pause, quando parla in pubblico. Spiega come mai quelle pause non dissolvono ma accrescono l’attenzione. Sanno che lui ascolta.
E rimprovera. “Tu pensi che il mondo è quello lì”.
Prende atto: “Ma poi la favola finì e l’insalata ingiallì / la gonna blu / non la mettevi più”.
E’ incerto: “Dimmi, è così che si fa? / Forse l’amore è così?”
E’ severo: “Ti perderai in questa video-società / che ti vuole dire come devi amare / come investire i soldi / quali giornali leggere / illudendoti…”.
E’ sincero: “Non c’è più niente da dirsi / io vorrei già starne fuori”.
E’ generoso: “Tu mi piaci sempre / quando ridi o piangi / e quando col bastone andrai / brillerà ancor di più / questa tua gioventù”.
E’ realistico: “Un giorno vivranno nel mondo / senza di noi …”
E’ ironico (auto-ironico): “E se ti lascio / aspettami sempre / male che vada / torno a settembre “.
Nella foresta magica, settembre torna sempre.