Prefazione di Paolo Conte
Cinquant’anni di arte vanno festeggiati e ringraziati.
Cinquant’anni da quando è comparso davanti al pubblico questo grande cantante, grande ballerino e grande attore.
Sono stati cinquant’anni coloratissimi, senza mezze tinte, sgargianti di arancio, di fucsia e di turchino.
E anche cinquant’anni di solitudine, come di un leone che gira intorno al branco e se ne sta in disparte.
…tre passi avanti, e crolla il mondo beat…
Non credo che Adriano volesse, con questa frase detta ad un certo punto della sua carriera, semplicemente difendere dall’assalto di nuove tendenze il genere rock and roll, scelta stilistica della sua giovinezza.
Credo che volesse difendere qualcosa di più ampio e di più profondo che riguardava la sua identità: tutta l’enorme congerie di idee, gusti, invenzioni che i suoi dischi esprimevano. E lì ci sono, combinati insieme, il ballerino assetato di parole e di ritmi e il cantante che non rinuncia a sentire girare intorno a sé il ballo,l’essenza più fisica della musica e, ancora lì, l’attore che disegna, sempre più marcata sul suo viso, l’antica somiglianza dell’espressione amara di Humphrey Bogart, disincantato incantatore.
Nella densità di questa solitudine c’è tutta la cultura travolgente dell’arte povera che fa di lui il più italiano degli stranieri e il più straniero degli italiani.