Prefazione di Vincenzo Cerami
Potrebbe cantare l’elenco del telefono, o il rimario letterario della lingua italiana curato dal Mongelli, o i dizionari delle mitologie e delle religioni, Adriano Celentano ci incanterebbe sempre, come fanno i serpenti a sonagli prima di colpire. È micidiale. Con quel suo sorriso sottosopra non smette di dirci che ovunque vada il mondo, cantare è già metà vivere. “Esco di rado e parlo ancora meno” è opera recente (con molto Mogol) di un uomo appartato, vissuto, che vuole rimettere in gioco il cuore.
Tutti sanno che Adriano vive in un’isola lontana e misteriosa, forse neanche su questo pianeta. Lo immaginiamo nel verde, o nell’indaco, nell’amaranto, in mezzo ai marziani vestiti d’acrilico, o anche buttato tra cartoni in chi sa quale remota metropoli globalizzata: vede scarpe che gli passano davanti, e dalle scarpe indovina l’uomo che le porta. Ce lo figuriamo anche tra collinette alberate,uccellini in calore e cerbiatti usciti da un film di Disney. Il mondo è azzurro di giorno e nero di notte, la luna appare e scompare come sempre, qualsiasi canzone sbuchi fuori dal suo nascondiglio. Se Adriano snocciola rabbie per le storture del pianeta, o languori per inventati amori andati a rotoli, sopra la sua testa continuano a passare aeroplani con la lunga coda bianca, che vanno chi sa dove e chi sa da dove vengono. Nessuno dà retta alle parole di un artista, da sempre.
D’altra parte ciò che ingenuamente, religiosamente, Adriano chiede agli uomini non è poca cosa. Chiede nientemeno che la felicità. Lui urla di qua e la storia, sorda, va dall’altra parte. Lui (che più in alto degli aeroplani scorge Dio) dai tempi della sua povera e allegra vita di adolescente, ancora odoroso di bachelite e di sapone Scala, prima in bianco e nero e poi a colori, non fa che dare melodie e ritmi alle furie e agli abbandoni di metà del Novecento e di questo primo decennio del Duemila. Il suo cuore è semplice, schietto, di chi non vuole nella vita miserie e dolori, e di chi non resta indifferente alla violenza dei prepotenti.
Gli duole vedere che nulla cambia in bene. Come tutti noi deve accettare, per esempio, la dura realtà di orrendi casermoni di cemento che una volta costruiti resteranno per sempre piantati là come una piaga, un melanoma della terra.
Tuttavia Adriano, il cittadino e l’artista, sente il dovere civile di scuotere il capo e di cantare la bellezza del vivere anche nell’orrore. Quando avvicina le labbra al microfono, il cuore comincia a battergli forte, e lo fa parlare direttamente, liberamente, candidamente. Gioca con la sua strepitosa voce. Ieri ha cantato la “Via Gluck”, oggi canta “Il figlio del dolore” o “L’uomo libero” di Fossati.
Celentano è entrato nei geni degli italiani. È un fratello festoso e bacchettone, un maniaco del bricolage, formidabile aggiustatore d’orologi e fabbricatore di viti d’ogni dimensione. È un adulto scappato lontano dagli adulti. Appena lo si sente o lo si vede, sbucano dalla memoria collettiva la faccia di un clown snodato e smorfioso, il bullo con gli straccali colorati sulla canottiera bucata,
il Ringo beffardo e tontolone, il fascinoso e dentuto domatore di donne. Recita a meraviglia l’allegria, ma quando canta canzoni pensose resta inespressivo, affida alle ricchezze, ai toni, ai respiri, ai deragliamenti della voce ogni accoramento.
Nessuno lo ha mai visto con la faccia triste, anche se canta di una donna stuprata da un branco di giovinastri incoscienti. Prende tutto sul serio, per questo non deve far finta di credere a ciò che dice. Eccola la reale forza di Celentano, la sincerità. Qualcuno, in un mercatino di Napoli, ha sentito un venditore gridare: “Comprate queste mele, sono sincere come Celentano!”