Prefazione di Giuliano Ferrara
Celentano è la durata nel tempo, il Per sempre delle playlist che una volta si chiamavano compilation.
Claudia Mori mi chiede di partire da una canzone di Celentano, ma io non conosco canzoni di Celentano, conosco soltanto lui e la sua voce e il linguaggio del suo corpo che fanno tutt’uno, come è universalmente noto. Chi ha stile non ha canzoni, ha una canzone sola. Conosco anche il Celentano religioso, il rokkettaro politico, soprattutto il performer televisivo che butta lì con la divina noncuranza della star, trascinando con sé ampie ed empie maggioranze assolute, la sua pausa e la sua predica. Anch’esse, come è universalmente noto, fanno tutt’uno.
Non gli ho mai domandato quello che gli hanno domandato tutti, se la pausa, l’invenzione della pausa, dipendesse da un vuoto di memoria.
Mi invitò al suo primo ciclo di Fantastico, la lotteria televisiva del sabato sera che nell’Italia di allora era una specie di Natale anticipato, e per me era evidente, anche dietro le quinte, che Adriano si era ricordato di non doversi ricordare tutto, perché i grandi attori offrono la memoria con la sprezzatura del loro talento,altrimenti sarebbero dei fini dicitori.
E anche la musica di Celentano ha incorporato in sé un carattere immemoriale, condivide con Bob Dylan quel segno oblioso, passante, viaggiante che impedisce alla canzone di diventare moda, trend, posizione di mercato a confini predeterminati.
Celentano è un guru che si è meritato l’aurea definizione di Giorgio Bocca, “cretino di talento”, con tutto quello che di gratificante, di specialmente commendevole, di anticonformista e provocatorio quella definizione porta con sé. Nel mondo della canzone italiana, così accademico e spesso stupidamente letterato, rinunciare all’intelligenza come percorso banale, riverito e accettato, e scegliere il talento come possibilità universale e popolare, è un manifesto del genio.