Prefazione di Tonino Guerra
Non so quando ma un amico, probabilmente il Nunzio Apostolico in un regno africano, mi portò a vedere un tamburo vecchissimo, che serviva per i primi colloqui con le grandi divinità del cielo perché regalassero pioggia alla terra bruciata dal sole.
Rumori che colpivano l’aria con cattiveria ma poi il suono si riempiva di polvere e di miseria quasi per diventare pieno di timidezza e pentimento.
Tenersi a casa qualcosa di Adriano Celentano è come avere con sé uno strumento unico e antico.
Sono appena tornato dall’Armenia accompagnato dalla musica di un “duduk”, (piccolo clarinetto pastorale). Non è che mi godevo i motivi che mi regalava; mi piaceva la sua voce, a volte rauca a volte limpida così vicina ai lamenti di sofferenza di un animale.
Così i motivi delle canzoni di Adriano spesso ti coinvolgono e ti affascinano e in più c’è la sua voce che ha un timbro nebbioso di grande sostanza per convincerti a raccogliere un godimento che supera il racconto che sta facendo. C’è una dimensione che si dilata nelle parole che si riempiono di una calda umidità. E spesso trovo dei silenzi quasi scorretti, così profondi che mi portano a seguire un ritmo inaspettato e denso di risonanze.
Camminavo in un mercatino dell’Uzbekistan su un terreno secco e lucido su cui stavano posati vecchi teli sbrindellati che tenevano in mostra alcuni meloni e oggetti arrugginiti. Mi sono inchinato per guardare il meccanismo di una sveglia rotta e proprio in quel momento ho sentito la voce di Celentano che proveniva chissà da dove. Mi sono messo subito a cercare dove fosse quel mezzo di diffusione. A un certo punto mi sono trovato sotto un altoparlante grigio appeso a un albero. E’ arrivata anche mia moglie e un amico italiano e siamo rimasti incollati a quella voce.
La stessa cosa mi è successa nel lungo treno notturno che mi portava da Mosca a San Pietroburgo. Disteso sul lettuccio alto ascoltavo la voce di Celentano e le sue parole.
Cantava “Soli” e il racconto sembrava che riguardasse me e mia moglie che era nel lettuccio inferiore. L’ho guardata dall’alto e lei ha aperto la tendina che copriva il vetro del finestrino. Nevicava. Devo confessare che la voce di Adriano ci ha aiutato a capire che era bello essere in treno, sotto la neve, lontano da tutti.
Amo la sua disubbidienza alla perfezione che mi fa ricordare un grande messaggio di un monaco cinese dell’anno Mille:
“Bisogna fare qualcosa di più della banale perfezione”.